Critica a Giorgia Meloni (analisi)

Giorgia Meloni – foto dal web ai fini illustrativi

Non si tratta di un attacco personale, ma di un dovere civile. Ogni cittadino che ancora conserva lucidità e memoria ha il compito di denunciare la deriva che sta corrodendo le fondamenta morali e culturali del Paese. La presidente del Consiglio ha costruito il proprio consenso su un linguaggio che divide, su una retorica dell’assedio che trasforma il dissenso in nemico e la critica in tradimento. È una politica che non eleva, ma disgrega; che non guida, ma manipola. L’arte del governo è stata sostituita dall’arte della propaganda, e la propaganda non costruisce ponti: erige muri.

Chi governa deve saper ascoltare, comprendere, mediare. Invece, assistiamo a una gestione chiusa, autarchica nel pensiero e povera di visione, dove la complessità del mondo è ridotta a slogan, dove le questioni morali e internazionali vengono affrontate con la superficialità di chi confonde la diplomazia con il tifo. Lo abbiamo visto con la vicenda della Global Sumud Flotilla, emblema di una subordinazione politica travestita da fermezza diplomatica. Di fronte alla detenzione arbitraria di cittadini italiani, l’Italia avrebbe dovuto alzare la voce della giustizia; ha preferito sussurrare quella della convenienza. È questo il volto della sovranità che ci era stato promesso?

Ma la responsabilità più grave non è solo nella gestione del potere: è nella costruzione deliberata di una narrazione che fomenta l’odio sociale e la diffidenza reciproca. Giorgia Meloni non si limita a rappresentare una parte del Paese: pretende di incarnarla, di definirla come “vera” contro tutte le altre. Così, l’Italia si divide tra “italiani buoni” e “italiani cattivi”, tra chi applaude e chi osa dubitare. È un linguaggio che svuota la democrazia del suo senso più profondo: la pluralità.

Il problema non è soltanto l’incompetenza tecnica – evidente nella gestione di crisi interne, economiche e internazionali – ma un’incompetenza più sottile e devastante: quella intellettuale. Un’incapacità di comprendere che governare non significa vincere una guerra di simboli, ma costruire una civiltà di valori. Il potere, nelle mani di chi non conosce il peso della parola e la responsabilità del gesto, diventa una forza distruttiva. È come consegnare una bussola a chi ignora la stella polare: la direzione non è più un cammino, ma un vortice.

Eppure, ciò che rende davvero inquietante questo scenario non è la figura singola della premier, ma l’eco che essa suscita. L’Italia è diventata un luogo dove una parte della popolazione si nutre di slogan come fossero verità, dove la riflessione è sostituita dal riflesso, dove la complessità viene derisa come debolezza. Il “popolo dei fedeli” – quel segmento rumoroso e impermeabile al dubbio – rappresenta il trionfo di una nuova forma di analfabetismo: quello funzionale, che non deriva dall’ignoranza dei libri, ma dal rifiuto della realtà.

La responsabilità, dunque, non è solo di chi governa, ma anche di chi applaude senza comprendere, di chi si sente rassicurato da frasi semplici perché teme le domande difficili. È l’alleanza tra l’arroganza del potere e la pigrizia del pensiero a minacciare la democrazia più di qualsiasi opposizione. E in questa alleanza, Giorgia Meloni si muove con la sicurezza di chi ha imparato a trasformare la paura in consenso.

La verità, tuttavia, non si cancella con i proclami. Il tempo, giudice implacabile, svelerà che dietro la retorica dell’orgoglio nazionale si nasconde un vuoto di visione, dietro la promessa di “riscatto” un sistema che perpetua disuguaglianze, e dietro la parola “patria” un progetto di controllo culturale. L’Italia non ha bisogno di una guida che la chiuda su sé stessa, ma di una coscienza che la apra al mondo.

Ogni civiltà conosce un momento in cui il potere tenta di sostituirsi alla verità, di riscrivere la memoria collettiva, di manipolare la storia. Siamo in quel momento. Ma la storia insegna anche che nessun potere costruito sulla menzogna sopravvive alla consapevolezza dei cittadini. È a loro che bisogna parlare oggi, con voce ferma e sguardo limpido: l’Italia non può permettersi di confondere la propaganda con la leadership, né di accettare come destino ciò che è soltanto un errore di giudizio collettivo.

La politica non è un’arena per gladiatori, ma un patto morale tra cittadini e istituzioni. E quando questo patto viene tradito, non servono urla, ma parole che pesino come pietre. La nostra indignazione non è odio, ma difesa della dignità. Perché amare il proprio Paese significa pretendere da chi lo guida la più alta forma di responsabilità, quella che nasce dall’intelligenza, dalla cultura, dall’empatia e dal rispetto per il pensiero altrui.

Giorgia Meloni rappresenta, oggi, l’antitesi di questo modello: una leadership che preferisce la forza all’ascolto, l’immagine al contenuto, l’orgoglio alla competenza. Ma un Paese non vive di slogan, vive di idee, di coerenza, di futuro. E chi non sa costruirlo, finirà inevitabilmente per distruggerlo.

Che questa denuncia serva da monito: nessun popolo può dirsi libero se si abitua all’incompetenza elevata a virtù, alla menzogna proclamata come verità, e all’odio travestito da patriottismo. La libertà non si difende con la paura, ma con il coraggio di guardare in faccia la realtà – anche quando la realtà indossa un volto sorridente e promette sicurezza.

E forse è proprio questo il momento di ricordarlo: l’Italia merita di più di chi la governa come un palcoscenico. Merita una guida che conosca la differenza tra potere e responsabilità, tra consenso e coscienza, tra patriottismo e propaganda. Finché questo non accadrà, la denuncia resta l’ultimo atto d’amore possibile verso la Repubblica.

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